Era un meridionale che aveva sfondato, conquistando un posto di rilievo nella creatura prediletta del padrone. Faceva parte della “squadra del Sud” all’interno della Juventus, con Causio, Cuccureddu, Furino, Longobucco. Pietro Anastasi era uno di loro, un fratello nato e cresciuto a Catania in una famiglia come la loro, modesta e operaia, formata da nove persone, facendo vari lavori, tra cui il ciabattino. «Ero bravissimo a riparare le suole delle scarpe» rivendicò con orgoglio. Come loro era arrivato a Torino, la città dell’industria, della Fiat e del pallone in cerca di fortuna, però, mentre loro sarebbero rimasti anonimi ingranaggi della catena di montaggio, lui aveva rappresentato il senso del riscatto di un popolo. Fu il primo ad avvicinare il Sud al Nord. Il catanese Pietro Anastasi, in quella Torino operaia, dove il Boom stava sfumando e cominciava il decennio di piombo, divenne un doppio idolo, dei meridionali e degli juventini: è uno dei 50 con la stella all’Allianz Stadium. L’idolo del ragazzo di Sicilia, invece, era John Charles di cui portava la foto, scattata al Cibali, nel portafoglio. Rispetto al colosso gallese, però, era molto diverso, un altro tipo di attaccante. Questo dettaglio tecnico, unito a una certa permalosità che sfociava nella sindrome d’accerchiamento “ce l’hanno tutti con me” - litigò con quasi tutti gli allenatori, fatale lo scontro con Parola - ne zavorrò la carriera. Era un falso nove, ma senza una teoria alle spalle. Più simile a Cruyff, tra scatti e scarti, che a Boninsegna con cui fu protagonista di uno scambio Juve-Inter di cui ancora si parla. Era agile, veloce, segnava gol d’istinto, come quello che, raddoppiando Riva, diede all’Italia l’unico titolo europeo. Accadde nella ripetizione della finale del 1968, contro la Jugoslavia a Roma. Da Catania erano partiti, inviati della “Sicilia”, due famosi giornalisti, Luigi Prestinenza e Candido Cannavò. Il futuro direttore della Gazzetta aveva scritto due commenti, vittoria o sconfitta. L’exploit inatteso del ventenne enfant du pays lo costrinse a gettare entrambi. A Catania si festeggiò due volte e venne dato alle stampe perfino un instant book (che non si chiamava così), autore Mario Continella: “La favola di Petru ‘u Turcu”. Costo 500 lire. Al termine di quella stagione, 1967-68, la seconda con il Varese, passò alla Juve. L’Inter del neo presidente Fraizzoli era arrivata prima, offrendo a Borghi, il patron del club e dell’Ignis, 400 milioni. Agnelli contrattaccò con una fornitura di motorini per i frigoriferi, valore 600 milioni. L’abbiamo sempre chiamato Pietruzzu, ma lui era “Petru ‘u turcu” per via della carnagione scura. I tifosi nemici lo apostrofavano con il classico “terrone”. Adesso ci sarebbero sanzioni e un dibattito politicamente corretto. Anastasi preferì risolverla così: “Sarò pure terrone, ma guadagno più di voi tutti messi assieme, polentoni”. Il pallone nel destino, la scuola saltata come un avversario molesto. Primo inquadramento la Massiminiana, serie D, proprietà dei fratelli Massimino. Alfredo Casati, ds del Varese, dopo la partita giocata al Cibali, lasciò il suo posto sull’aereo di ritorno a una donna incinta. Così andò a vedere la Massiminiana e chiuse l’affare. Petru ‘u turcu a Varese trovò la signora Anna e il posto delle fragole. Il trasferimento al Nord venne favorito dall’avversione dei Massimino per il Catania che rimase anche quando Angelo acquistò il club. Anche il suo rapporto con la Nazionale, dopo l’avvio pirotecnico fu altalenante. Contribuì pure la iella. Nel ’70 saltò i Mondiali per un motivo che a raccontarlo pare una barzelletta: un massaggiatore gli diede per scherzo una botta sui testicoli e dovette addirittura operarsi. Per sostituirlo presero due attaccanti: Prati, di cui Valcareggi non si fidava, e Boninsegna, la sua nemesi. Ritornò in Nazionale nel 1974 per la spedizione Azzurro Tenebra (copyright Arpino) in Germania. Sopravvisse all’epurazione post-Mondiale della coppia Bernardini-Bearzot per una gara, contro l’Arancia meccanica olandese di Cruyff. Sopravvisse altri due anni alla Juve, con l’anziano Altafini a soffiargli sulla schiena con i suoi gol decisivi da subentrante. Andò all’Inter con il tremendo vaticinio di Gianni Brera: «E’ finito, altrimenti la Juve non lo avrebbe ceduto». Chiuse al Lugano, a inizio Anni ’80, ma prima si prese qualche soddisfazione con l’Ascoli, segnando il centesimo gol in serie A a Torino, alla Juve, di testa con standing ovation del Comunale che non l’aveva dimenticato. Con Madama ha giocato otto stagioni, stabilendo un record che ha resistito fino a Ronaldo: 9 reti nelle prime 13 gare (1968-69). Di CR7, diventato opinionista tv, già minato dal male, disse: «Meglio di Ronaldo, in bianconero, ho visto Platini, Baggio, Zidane e Del Piero». Ha cercato, con una finta e uno scatto, di mollare il male sul posto ma si trattava di un terzinaccio troppo forte.
Autore: Redazione TuttoAscoliCalcio / Twitter: @TuttoAscoli
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